Tento di scavare nella memoria, raschio il fondo della mente per risalire al mio primo ricordo, eppure non sono in grado di ricordare nulla, niente che possa dare un inizio alla storia.
In questa mattina di inizio estate mi ritorna alla mente un aneddoto: a mia madre piace raccontarne, in particolare è affezionata a quelli che riguardano l’infanzia dei suoi figli.
Ne individuo uno su di me, particolarmermente significativo per lei, e pensando alla vita che si sarebbe susseguita dopo quell’evento penso di poter affermare, con una certa sicurezza, che i miei genitori avrebbero dovuto aspettarselo.
Non so se questo episodio sia davvero permaso nella mia memoria, dopotutto ero troppo piccola perché questo rimanesse registrato negli archivi del mio cervello, eppure mia madre ha raccontato talmente tante volte gli eventi di quel giorno che ormai l’immaginazione con cui li ho figurati nella mia mente sono diventati più un ricordo, qualcosa di palpabile e concreto.
Eccomi, sono lì: seduta sulla sedia della cucina, impaziente.
Mia madre ha appena finito di avvinghiarmi in un minuscolo abito azzurro, mi ha sistemato i capelli ricci con un nastro e ora è alle prese con mio fratello. Niente è più bello di un pomeriggio al parco per me, che adoro le fontane, e al parco ce n’è una che spilla l’acqua in verticale che ricade in una vasca piena di pesci; guizzano via ogni volta che cerco di toccarli.
Un’ottima idea è quella che mi passa per la testa: approfitto della distrazione di mia mamma e con piccoli passi leggeri esco dalla porta aperta di casa, ripercorro il ballatoio condominiale e ora giù per le scale, gradino dopo gradino, ripercorro i due piani che mi separano da terra.
Qualcuno avrebbe dovuto avvisarmi che smettere di essere una quadrupede non faceva di me una piccola campionessa olimpionica di atletica leggera.
Sento qualcuno urlare, mi volto, è mia madre. La sento gridarmi di fermarmi, è disperata, ma nell’ingenuità infantile non me ne rendo conto, o forse per paura prendo a correre più forte. Se non fosse stato per quel rompiscatole del vicino dalle gambe lunghe che mi ha acchiappata alle spalle, probabilmente sarei riuscita ad arrivarci da sola al parco. Certo, prima avrei dovuto attraversare una fra le strade più trafficate della zona, ma questo era un ostacolo da nulla per l’erede diretta di Forrest Gump.
( … ) È da quando ho imparato a camminare sulle mie gambe che mi piace quel sapore sapido della libertà, dell’avventura, della vita vissuta senza restrizione alcuna. Tutto questo mi ha accompagnata negli anni, mi ha fatta diventare giorno dopo giorno – prima in piccolo e poi in grande – una sostenitrice della libertà in ogni sua forma e in ciascuna sua sfaccettatura. Guardo alla vita e la osservo dal basso, collezionando domande, parole, pensieri, idee. Sono la somma di una povera terra d’Albania, di una clandestinità che mi ha dato l’opportunità di nascere sul suolo d’Italia, di un insensato razzismo che ha temprato il mio sentimento di cosmopolitismo, di un bullismo che mi ha fatto odiare il mio stesso corpo, di una madre con la schiena stanca che muore per lavorare anziché lavorare per vivere, di un padre che mi ama ma che ha deciso per me la vita che dovrò condurre.
L’uccello in gabbia non canta per amore ma per rabbia.
Osservo con attenzione, ho lo sguardo affilato e la lingua tagliente.
Voglio fare informazione, voglio rendere visibile a chiunque ciò che i miei occhi vedono attraverso i miei reportage, voglio condividere i miei pensieri scrivendo di realtà scomode su di un giornale senza censura alcuna, voglio smantellare il teatro nella quale ci muoviamo come burattini di legno, liberare il pensiero e fare del cambiamento il mio punto d’arrivo all’interno della storia del mondo.