Con la presa del potere da parte di Benito Mussolini, nel 1922, si inaugura un nuovo periodo per la moda italiana, infatti per tutto il ventennio di dittatura il Duce condizionerà il vestiario delle donne imprimendo una particolare impronta fascista e cercando, molto spesso invano, di determinarne le scelte.
Mussolini non amava le ostentazioni, detestava gli eccessi e aveva ben chiaro il suo ideale femminile: gli piacevano le contadine di stazza robusta e di fianchi prolifici e finché poté cerco di trasformare le ribelli signore italiane in massaie rurali.
Attraverso “Il giornale della donna”, “Camerate a noi”, “il popolo d’Italia”, tentò quindi di instillare nelle donne la disciplina, l’amore per i prodotti nostrani ed il rifiuto dello stile parigino.
Nel 1935 fu fondato l’Ente Nazionale della Moda, con sede a Torino, che aveva come scopo la diffusione di una nuova moda nazionalista. Questa era sollecitata a inventare creazioni esclusivamente “italianissime”. Il primo articolo costitutivo dell’Ente obbligava a certificare la garanzia italiana di ogni creazione.
Negli anni Trenta i couturier parigini avevano lanciato una linea affusolata, estremamente femminile, con punto vita valorizzato da cinture, gli abiti si fanno più morbidi e fascianti, le gonne si allungano sotto il ginocchio per il giorno e fino alla caviglia la sera, accompagnate da camicie o maglioncini. Di giorno, l’eleganza trovava spesso il suo protagonista nel Tailleur pantalone, con giacche strette in vita e spalle squadrate dalle imbottiture interne nascoste.Il corpo era messo in evidenza dalle sete degli abiti da sera, lunghi, fascianti sul corpo e con ampie scollature sulla schiena. D’inverno le spalle venivano adornate da immensi colli di pelliccia. Per il mare il corpo era molto scoperto. Tornò protagonista il tacco alto.
Coco Chanel, Madeleine Vionnet, Elsa Schiapparelli , erano al centro dell’attenzione internazionale; ma anche lo stile mascolino di Marlene Dietrich era spesso imitato
Erano di moda i vestiti stampati a fiori, il plissé, le arricciature, i merletti e i ricami. Le giacche e le mantelline si abbonavano a una gonna fantasia, i bottoni e le fibbie erano in forme curiose come acrobati o cagnetti, in materiale quale il legno, la pelle, l’osso, la madreperla. I guanti erano d’obbligo come i cappellini, e solo le donne del popolo uscivano a testa scoperta.
Il fascismo si occupava invece di demografia ed era convinto che “l’eleganza è nettamente sfavorevole alla fecondità”. Tentando di riportare le donne tra le mura domestiche, cercava di convincerle a ingrassare. Guardava con orrore “le manichine”, ossia le indossatrici magre e feline, detestava i “gagà” e le “gagarine”, ossia le persone alla moda, suggeriva che la modella perfetta doveva essere alta 1,56/1,60, e pesare 55/60 chili. I figurini e le fotografie di moda riproducevano belle ragazze robuste.
Il regime puntava inoltre su abiti che si rifacessero alla nostra tradizione popolare, al Medioevo e al Rinascimento, mentre con la conquista dell’Albania ci si ispirò al suo folklore per costumi colorati e ricamati, come quelli propagandati da Maria Josè di Savoia.
Mussolini lanciò inoltre violente campagne contro i pantaloni, contrari alla decenza e alla maternità, e contro il trucco che, impiastricciando il volto, imitava sfacciatamente le dive di Hollywood, con le labbra arcuate e le sopracciglia rasate. Le signore continuarono comunque a inseguire la dieta, a copiare più o meno apertamente i modelli francesi, ad ossigenarsi, a guardare con estremo interesse le dive dei “Telefoni bianchi” che naturalmente si rifiutavano di uniformarsi al modello voluto dal regime.
L’autarchia stava creando notevoli problemi: alcune materia prime non potevano essere prodotte in Italia. Seta e lino si coltivavano facilmente nella penisola, mentre per il cotone gli industriali italiani non erano stati capaci di ottenere quantità soddisfacenti; Nelle more di queste difficoltà, il Duce affermò perentoriamente che bisognava sostituire le fibre mancanti con altre naturali: La lana fu sostituita dal “Lanital”, una fibra derivata dalla caseina contenuta nei residui di latte di capra, con cui si ottenevano maglie che cedevano e che si ingrossavano se inumidite. Per le pellicce di volpi argentate, venivano utilizzati i cincillà, mentre per le giacche, si dovette ricorrere alla pelle dei nostrani conigli, magari ritinti. Fu così che per la prima volta nella storia, l’industria dell’abbigliamento introdusse le fibre sintetiche: il Nylon (per sostituire la seta) diventò il materiale più utilizzato per la fabbricazione di calze e collant, vera e propria invenzione dell’epoca.
La Seconda guerra mondiale peggiorò la situazione in modo drammatico; il mondo viveva un periodo molto duro che richiedeva sforzi ingenti, la moda ne risentì e lo stile diventò molto austero. Fu obbligatorio risparmiare sui tessuti e sul cuoio, che servivano per le uniformi dei soldati, tanto che le case di moda furono costrette a ripiegare sui tessuti poveri: gli abiti da donna erano quindi votati alla semplicità, linee dritte, capi squadrati e tailleur-divisa furono i dettami di una moda che sembrò voler uniformare lo stile della donna a quello del soldato al fronte. I governi dell’epoca imposero così, uno stile sobrio. Gli abiti si accorciarono addirittura sopra al ginocchio,gli strascichi degli abiti da sposa e da sera furono aboliti, gli abiti seguivano lo stile militare con pochi decori per contenere il più possibile i consumi ed i costi.
Con la guerra le calze in nylon erano molto difficili da trovare e quindi si preferirono o le calze corte o truccarsi le gambe con l’hard e simulando una cucitura sul retro con una matita per gli occhi.
A causa dei razionamenti, dati dalla guerra in corso, il governo statunitense decise che il consumo del tessuto utilizzato per la realizzazione dei costumi da bagno doveva essere ridotto del 10%, quindi l’unica alternativa possibile fu quella di sostituire il classico costume intero in un due pezzi.
La crisi e il divieto dell’uso del cuoio e dell’acciaio spinsero un calzolaio italiano, Salvatore Ferragamo, ad abolire il tacco e ad inventare la zeppa in sughero sardo, mentre rafia, cellophane, tela, fili metallici, legno e resine sintetiche, servirono per fabbricare la tomaia, caratterizzando la maggior parte delle scarpe degli anni Quaranta. La zeppa poteva avere anche tacco rientrante, ribattezzato ad “Effe” che fu brevettato.
Erano scarpe colorate, fantasiose, a volte visionarie, sempre divertenti, e piacquero molto.
Le riviste di moda descrivevano come trasformare indumenti logori in cappelli, guanti e calze o come rammendare e cucire abiti ormai dismessi, così, negli anni quaranta, incalzate dai bombardamenti, sfollate in campagna, le donne impararono a fabbricarsi un vestito nuovo e bicolore con due vecchi, a rivoltare il paletò del marito, a farsi le mutande con le camicie vecchie.
Per quanto riguarda la Francia, la seconda guerra mondiale quasi non inizio neanche, infatti, le donne parigine furono l’eccezione in tutto questo scenario di ristrettezze e privazioni, loro, che si vantavano di avere il primato dell’eleganza, continuarono ad essere le donne meglio vestite al mondo, che, senza avere conto delle restrizioni, svilupparono una linea stravagante, che prevedeva grande spreco di materiale in polsini e bottoni decorativi, maniche voluminose, capi drappeggianti e gonne a portafoglio.